Ciò che resta del corpo. Una mia recensione di Roberto Esposito

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Da L’Unione Sarda del 31 gennaio 2015

Roberto Esposito, Le persone e le cose, Torino: Einaudi 2014, pp. 115, €10

Che persone e cose siano radicalmente diverse è cosa scontata. Però, se ci ammaliamo, se ci trapiantiamo, se ci droghiamo e se guardiamo il nostro sangue raccolto in una sacca, e magari vogliamo venderlo, o donarlo, ci troviamo immersi nel tema di questo libro, cioè il fatto che il corpo, il nostro corpo, non sia classificabile né come cosa, né come persona. E che questa classificazione sia diventata inutile nel mondo delle biotecnologie, dei trapianti, e del cyborg. Nel nostro mondo. I corpi includono al loro interno elementi provenienti da altri corpi, o da materiali inorganici, sono manipolabili e essi stessi snodi di ogni rapporto con le cose, oltre che con le altre persone.

Roberto Esposito ci aiuta a orientarci in questo dibattito che interessa non solo gli studi sulla tecnoscienza, ma gran parte del dibattito pubblico nei Paesi più attenti. In Italia ha avuto un’eco molto più labile. Si inserisce con originalità nel dibattito sull’evoluzione delle forme politiche e della loro connessione col vivente, col bios, seguendo in questo Foucault.

Qui analizza proprio l’origine, i caratteri e le conseguenze della classificazione binaria persona/cosa. Si tratta di una classificazione con una storia ricostruibile, “occidentale”, e Esposito ci accompagna in un viaggio affascinante che passa dalla tradizione giuridica romana e da quella filosofica greca, attraversa il Cristianesimo sino ad arrivare a Cartesio, ai filosofi della modernità classica, e infine alle decostruzioni contemporanee. L’incapacità di collocare il corpo in uno dei due nuclei (persone e cose), peraltro disposti asimmetricamente, ha generato esclusione e rimozione. Rimosso il corpo, la sostanza pensante sovrasta la sostanza estesa, le cose, e dunque anche la tecnologia. L’esclusione del corpo è andata di pari passo con la possibilità di definire le persone in base al fatto di non essere cose, e ha reso possibile l’idea che alcune persone, gli schiavi, o le mogli, potessero essere apparentati alle cose, e usati. Il Cristianesimo ha poi riportato all’interno di ogni individuo la separazione e la subordinazione del corpo e delle cose allo spirito.

Le cose, a loro volta, sono state rese interpretabili solo attraverso il discorso, un’idea, o un substrato. In sé, sono prive di alcun senso, e ostili alla “natura umana”, costrutto sopraponibile al “dispositivo della persona”, fondato sulla rimozione della corporeità e della materialità. Ma il corpo è proprio ciò che lega ogni uomo alle cose, con l’uso delle mani, e con l’esperienza corporea delle cose. È la pietra dello scandalo di ogni razionalismo ingenuo.

Quindi la ragione costituisce la “persona”, e la persona domina la cosa, in sé ni-ente. Mettere al centro il corpo significa mettere al centro la materialità e l’esistenza concreta delle cose, e superare le logiche del dominio e dell’interesse personale in contrasto con il bene comune, implicite nei saperi disincarnati.

Il testo di Esposito ha il grande merito di introdurre in lingua italiana, in un testo agevole per una persona colta, il grande dibattito sulle frontiere dell’umano, in cui si cercano risposte alle trasformazioni che le biotecnologie, l’antropotecnica e altri mutamenti epocali provocano nella vita. Purtroppo, Esposito ignora il grande contributo al tema dei confini dell’umano del pensiero femminista (penso a Barad, a Donna Haraway, a Braidotti), oltre che molte ricerche antropologiche (Descola) e di ambito STS. Ma, considerata la marginalità del dibattito in lingua italiana, ci offre con questo testo un prezioso sussidio che sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire.

Sardo, storia di un’identità. Una mia recensione pubblicata su “L’Unione Sarda” del 10 gennaio 2015

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Roberto Bolognesi, Le identità linguistiche dei Sardi, Cagliari: Condaghes, 2013, pp. 215, € 20

Dimentichiamo il Roberto Bolognesi blogger sulfureo. Chiunque voglia capire i problemi della nostra limba, e non voglia impelagarsi in personalismi e piccole rivalse, dovrebbe leggere “Le identità linguistiche dei Sardi”, un testo scientificamente impeccabile, scritto in modo asciutto e chiaro.

Bolognesi applica al sardo la linguistica computazionale e altri metodi innovativi, sinora poco usati.

Come Michel Contini a Grenoble, Guido Menschig a Colonia e poi a Berlino, Bolognesi ad Amsterdam ha riaperto il cantiere del sardo. Come scrive l’autore, “… la linguistica moderna, sviluppata a partire dal lavoro di De Saussure [all’inizio del XX secolo] non è mai arrivata a lambire le Università italiane in Sardegna, almeno per la linguistica sarda”.

Il libro contiene una ricostruzione della nostra storia linguistica, un’analisi sociolinguistica della situazione sarda e un’applicazione della linguistica computazionale allo studio del sardo.

La parte storica descrive la fine dell’uso ufficiale del sardo, a partire dalla sconfitta con l’Aragona nel 1410. Analizza l’introduzione formale dell’italiano (1760) al posto dello spagnolo nell’uso corrente dei gruppi dirigenti (stimabili al 3% della popolazione). Il restante 97%, analfabeta, ha continuato a parlare sardo sino alla scolarizzazione di massa, ma a un livello dialettale. Lo Stato unitario ha condotto una lotta senza quartiere contro i dialetti dell’italiano e le lingue minoritarie, sino alla proibizione fascista del dialetto a scuola (1934), una politica proseguita sino ad oggi.

Solamente nel 1997 e nel 1999, inizia la “risardizzazione linguistica” della Sardegna, a partire dal riconoscimento giuridico, ma anche dallo sviluppo di internet. È su internet, a partire dalla mitica “Lista di Colonia” (1999), una mailing list sviluppata in quella Università tedesca, che si inizia a scrivere di ogni argomento in sardo. Poi è accaduto di tutto: l’adozione di uno standard ufficiale, l’espansione del suo uso sui media, discussioni, litigi, crisi d’identità, ritorno al sardo, cambiamento del livello di prestigio del parlare in sardo.

Contemporaneamente, il sardo si sta estinguendo, dopo più di mille anni di vita. Bolognesi analizza con uno sguardo innovativo la situazione sociolinguistica che porta le persone a avere solo una conoscenza passiva (cioè, capirlo ma non “riuscire” a parlarlo, quasi fosse impossibile), e a giustificare il rifiuto attivo del suo apprendimento, fenomeno forte fra le donne e gli appartenenti al ceto medio istruito. Usa proprie ricerche (il caso di Sestu), i dati della Ricerca sociolinguistica del 2007, e altri lavori, spesso di orientamenti diversi. Superando il provincialismo di tanti dibattiti sulla cosiddetta “identità sarda”, il nostro linguista olandese-iglesiente, si ispira al dibattito sull’identità sviluppato negli USA da filosofe come Judith Butler. L’identità linguistica è trattata come un prodotto risultante da un lungo processo, non come una nostra qualità originaria, in quanto sardi. È una posizione libera dal nazionalismo e dall’esoticismo simil-orientalista.

Infine, il libro contiene una parte più linguistica, in cui l’applicazione della linguistica computazionale al confronto fra il sardo di 77 paesi (e città) diverse fa sostenere al Nostro che la suddivisione fra campidanese e logudorese sia solo un effetto di discorso, che non abbia una base empirica.

Il libro di Bolognesi è un contributo al dibattito sulla limba scientificamente fondato, e dovrebbe entrare nelle case di ogni sardo colto.

Addio a Ulrich Beck. Su “L’Unione Sarda” del 5 gennaio 2015

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Ulrich Beck (1944-2015)

La morte per infarto di Beck priva la sociologia europea di uno dei suoi maggiori esponenti. Beck ha pubblicato il suo libro più famoso, “La società del rischio” (Risikogesellschaft), lo stesso anno del disastro di Černòbyl’, il 1986, e non è un caso. Con altri pensatori e ricercatori, egli ha cercato di emancipare la sociologia dalla sua dipendenza rispetto al culto della modernità e della modernizzazione, alla credenza metafisica in un suo valore necessariamente positivo. Della modernità, Beck studia gli aspetti decisamente meno attraenti. E ne vede la fine o, comunque, il passaggio verso un’altra fase, che chiama “modernità riflessiva”.

In Italia, la sua opera è stata recepita all’interno delle retoriche relative alla cosiddetta “globalizzazione”, ed è stata in gran parte tradotta.

Per Beck, infatti, la produzione sociale della ricchezza si accompagna alla produzione sociale del rischio. Le promesse della modernità non sono state mantenute e la società che essa ha forgiato è piena di disastri. La modernità produce non ordine, ma incertezza, sia per la distribuzione sempre più remota e incontrollabile dei livelli decisionali, sia perché non può sopravvivere senza intrecciarsi a sistemi tecnologici che sono soggetti al caso e all’insicurezza.

La società della “seconda modernità”, la nostra, è dunque una società che rivolge le sue ansie, le sue inquietudini, e le sue risorse, al timore e alla gestione del rischio. Quello che differenzia la nostra società da quelle che l’hanno preceduta è il fatto che la maggior parte dei disastri che si temono, e che si vuole evitare, non sono più imputati a forze naturali, ma provengono dallo stesso sviluppo della modernità e della società industriale. I disastri atomici, l’inquinamento, la diffusione di malattie, la qualità dei cibi, gli incidenti su navi, aerei e automobili, e la crescente disillusione verso i saperi esperti, l’industria, la politica, caratterizzano in modo crescente le società in cui viviamo, il loro dibattito pubblico e gli atteggiamenti e le attese individuali.

Beck non accoglie il pensiero postmoderno nella sua esaltazione dell’aspetto iperreale e solo-discorsivo del mondo in cui viviamo, ma sicuramente ammette il superamento della modernità classica, che ha chiamato “prima modernità”, in favore di una “seconda modernità”: il nostro periodo, illustrato da termini come “principio di precauzione” e “sostenibilità”.

La sociologia di Beck si caratterizza quindi per la sua distanza da visioni consolanti relative alla superiorità della società contemporanea rispetto ad altre forme sociali, dalla coscienza dell’importanza del suo carattere globale, e per l’importanza data a entità nonumane, come i sistemi tecnologici, l’ambiente, la comunicazione e le mobilità. Il suo pensiero originale ha fatto onore alle scienze sociali tedesche ed europee.

Fortezza Castello

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Fortezza Castello

Il sindaco Zedda dice che è “Inutile parlare di città turistica se, poi, una delle più belle piazze

di Cagliari è un parcheggio”. L’assessore Coni, con sprezzo, dichiara “intollerabile” che i

residenti “pretendano” di parcheggiare vicino a casa.

Sui social, uno dei gruppi casteddai più amati è “Noi del circolo San Saturnino di Castello”,

seguito da 1600 persone, di cui molti ex-residenti. 1500 è il numero stimato di chi vive

(ancora?) in Castello. Ma per Coni e Zedda conta solo quello che loro immaginano sia il

turismo, in versione pagu-bessia. C’è in loro un tardivo legame con idee novecentesche di

una città immaginata “per funzioni”, in cui ci sono le “zone turistiche” e quelle “residenziali”

(idea madre di ogni disastro urbanistico contemporaneo). E c’è disprezzo per i residenti di

Castello e per la loro cultura. Vorrebbero assegnare l’etichetta “turistica” al quartiere, per poi

annichilire ogni altra dimensione, e quindi renderlo morto e triste.

Zedda, Coni e la loro Giunta, incapaci di affrontare il problema in modo complessivo, se la

prendono infatti con i residenti. Mentre infiocchettano in modo grottesco il vecchio Palazzo

di Città, e lasciano piazza Palazzo su un suo lato diroccata e imbruttita da cancelli elettrificati

stile villetta di periferia, vogliono costringere i residenti ad abbandonare le macchine, senza

alternativa. Per una “pedonalizzazione” che è un fake totale, una presa in giro. Infatti, in Piazza

Palazzo le macchine rimarranno, e alla Prefettura verranno lasciati dei posti privilegiati.

Bastonare i cittadini, salvare i potenti, secondo la loro ottica fighetta.

Tutto ciò è vergognoso. Il Comune non offre alternative ai residenti, che sarebbero contenti

della pedonalizzazione e del miglioramento del quartiere. I parcheggi riservati ai residenti

sulla carta sono invece per loro inutilizzabili, senza che vi sia vigilanza. Gli ascensori non

funzionano e non si vede alcun piano di sostituzione. Il pulmino passa ogni mezz’ora e ha un

percorso improbabile. Castello merita di essere abitato da gente normale, che lavora. E’ l’unica

strada per non fargli perdere la sua bellezza, che non è quella di essere un proscenio.

Da sinistra, sono offeso dal fatto che chi usa i nostri simboli faccia una politica così classista,

che può provocare solo più gentrification, e miope. Per apparire sui media, si rende

impossibile la vita delle persone. Castello non è Villanova, è una rocca sospesa sul resto della

città. I suoi residenti non possono essere imprigionati dalle scelte di un assessore e di un

sindaco che, speriamo, vadano via presto.

Murigruship vs Leadership: chiamiamoli diversamente. Da “L’Unione Sarda” del 15 agosto 2014.

L’ammiraglio Binelli Mantelli è un genio. Ha detto che le servitù militari bisogna chiamarle diversamente per “esigenze comunicative”. Che so, “Parco”, o “Area a sviluppo misto”. Così va il mondo. Ecco che cosa “non bisogna chiamare più così” per vivere felici e contenti in Sardegna.

AMBIENTE. E che non vada contro lo sviluppo.

AUTONOMIA DELLA SARDEGNA. “Regione Sardegna” suona meglio. Mera articolazione locale dello Stato.

AUTOREVOLEZZA. Orpello. Alto grado del MURIGRU (cfr.).

BANCHE E FONDAZIONI BANCARIE. Fondamento importante del sistema politico sardo. Cfr. ancora MURIGRU.

BONIFICHE DEI SITI INQUINATI. Nuove soglie e misure del rischio le escludono. Chiuso l’argomento.

CAMBIAMENTO. Inutile pensarci. Soluzione ne esiste una sola, la loro.

CAOS TRASPORTI. Qualche difficoltà in un quadro sostanzialmente positivo.

CASTA E VITALIZI. Stanno elaborando una legge per ridurre i privilegi. Pare.

CONSULENTE (DELLA GIUNTA DI DESTRA/SINISTRA). Passo necessario per diventare Assessori della Giunta di segno opposto. Step di una normale carriera politica sarda.

DEMOCRAZIA. Ora tocca a noi, oppure vince la Destra (o i Comunisti).

DISPERSIONE SCOLASTICA. Causata da Scuole cadenti. Nulla a che vedere con l’impianto pedagogico, i problemi dei docenti, o la repressione del plurilinguismo sardo. Tanto colpisce i poveri, chi se ne frega.

FAMILISMO. Se mia moglie o mio fratello sono così in gamba, non posso discriminarli!

FLOP. “Step finale” delle idee geniali di sviluppo e/o rinascita della Sardegna.

GIUNTA REGIONALE. Se ne aggiunge una all’altra, senza variazioni osservabili. Adesso c’è, infatti, l’Aggiunta Pigliaru.

IDENTITA’ SARDA. Termine vago passe-partout. Analogo a “specchietto per le allodole”.

INDUSTRIE DECOTTE. Mantenimento dei posti di lavoro.

MODERNITA’/MODERNIZZAZIONE. Termine con cui si indica un passaggio di status di tutta la società dall’orribile “società tradizionale” all’estasi della civiltà moderna. Idolo locale (cfr. IDENTITA’ SARDA).

MONOLINGUISMO ITALIANO. Già ci siete un’ora con questo sardo, è da sfigati ajò (cfr. MODERNITA’/MODERNIZZAZIONE).

MURIGRU. Meglio dire Leadership. Sistema opaco di gestione politica della Sardegna (murigruship) a sostanziale vantaggio di interessi esterni e delle carriere e dei patrimoni di alcuni sardi.

PARLAMENTARI SARDI. Operatori parlamentari dei Partiti. Necessaria una scarsa preparazione, assenza di idee e fedeltà sino alla morte agli autorevoli esponenti del murigruship.

PASTORIZIA E ALTRE ATTIVITA’ PRODUTTIVE SARDE. Attività arretrate da superare in favore di cose molto ma molto più smart (cfr. FLOP).

SOVRANISMO. Uno Stato sardo per il futuro, la dipendenza solita per il presente.

TURISMO. Soluzione passe-partout per ogni nostro problema. Flop (cfr.) perenne.

L’ammiraglio Binelli Mantelli è un genio. Ha detto che le servitù militari bisogna chiamarle diversamente per “esigenze comunicative”. Che so, “Parco”, o “Area a sviluppo misto”. Così va il mondo.  Ecco che cosa “non bisogna chiamare più così” per vivere felici e contenti in Sardegna. AMBIENTE. E che non vada contro lo sviluppo. AUTONOMIA DELLA SARDEGNA. “Regione Sardegna” suona meglio. Mera articolazione locale dello Stato.  AUTOREVOLEZZA. Orpello. Alto grado del MURIGRU (cfr.).  BANCHE E FONDAZIONI BANCARIE. Fondamento importante del sistema politico sardo. Cfr. ancora MURIGRU. BONIFICHE DEI SITI INQUINATI. Nuove soglie e misure del rischio le escludono. Chiuso l’argomento. CAMBIAMENTO. Inutile pensarci. Soluzione ne esiste una sola, la loro. CAOS TRASPORTI. Qualche difficoltà in un quadro sostanzialmente positivo. CASTA E VITALIZI. Stanno elaborando una legge per ridurre i privilegi. Pare. CONSULENTE (DELLA GIUNTA DI DESTRA/SINISTRA). Passo necessario per diventare Assessori della Giunta di segno opposto. Step di una normale carriera politica sarda. DEMOCRAZIA. Ora tocca a noi, oppure vince la Destra (o i Comunisti). DISPERSIONE SCOLASTICA. Causata da Scuole cadenti. Nulla a che vedere con l’impianto pedagogico, i problemi dei docenti, o la repressione del plurilinguismo sardo. Tanto colpisce i poveri, chi se ne frega.  FAMILISMO. Se mia moglie o mio fratello sono così in gamba, non posso discriminarli! FLOP. “Step finale” delle idee geniali di sviluppo e/o rinascita della Sardegna.  GIUNTA REGIONALE. Se ne aggiunge una all’altra, senza variazioni osservabili. Adesso c’è, infatti, l’Aggiunta Pigliaru. IDENTITA’ SARDA. Termine vago passe-partout. Analogo a “specchietto per le allodole”. INDUSTRIE DECOTTE. Mantenimento dei posti di lavoro. MODERNITA’/MODERNIZZAZIONE. Termine con cui si indica un passaggio di status di tutta la società dall’orribile “società tradizionale” all’estasi della civiltà moderna. Idolo locale (cfr. IDENTITA’ SARDA). MONOLINGUISMO ITALIANO. Già ci siete un’ora con questo sardo, è da sfigati ajò (cfr. MODERNITA’/MODERNIZZAZIONE).  MURIGRU. Meglio dire Leadership. Sistema opaco di gestione politica della Sardegna (murigruship) a sostanziale vantaggio di interessi esterni e delle carriere e dei patrimoni di alcuni sardi. PARLAMENTARI SARDI. Operatori parlamentari dei Partiti. Necessaria una scarsa preparazione, assenza di idee e fedeltà sino alla morte agli autorevoli esponenti del murigruship. PASTORIZIA E ALTRE ATTIVITA’ PRODUTTIVE SARDE. Attività arretrate da superare in favore di cose molto ma molto più smart (cfr. FLOP). SOVRANISMO. Uno Stato sardo per il futuro, la dipendenza solita per il presente.  TURISMO. Soluzione passe-partout per ogni nostro problema. Flop (cfr.) perenne.

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“Lo standard [del sardo] è il futuro. Senza diktat”. Un’intervista de L’Unione Sarda in edicola il 21/06/2014

«Chiamiamola Laboratorio (o, meglio Fraili, in sardo); chiamiamola Accademia, chiamiamola Agenzia regionale: comunque, è indispensabile una struttura tecnico-politica al servizio di chi parla il sardo. È lì che devono essere affrontati i problemi tecnici, come le regole ortografiche». Alessandro Mongili, 54 anni, sociologo dell’Università di Padova, ha un’idea netta sulla disamistade linguistica che oppone favorevoli e contrari alla Limba sarda comuna: «Rischia di far morire un monumento culturale collettivo costruito in 1200 anni». Mongili è fra gli autori della ricerca sociolinguistica dell’Università di Cagliari che nel 2010 ha rivelato come i sardi vogliano parlare e scrivere il sardo. Anche quando lo praticano poco. Da sociologo della scienza, sa che le standardizzazioni hanno percorsi complessi. Comportano discussioni e aggiustamenti. Chi dovrebbe dunque far parte del Laboratorio/Fraili? «I tecnici della lingua, ma non in isolamento». Gli esempi ci sono già: in Galles, in Catalogna, in Friuli, nelle Valli Ladine. «In genere queste strutture sono formate da linguisti, compresi i dialettologi. Ma potrebbero farne parte anche pedagogisti, esperti di mass-media e di informatica, sociolinguisti. Possibilmente attrezzati di Master ed esperienza maturata laddove il bilinguismo è praticato». Perché pratici sono i principali elementi di contesa. Per esempio, è possibile che a una ortografia unica corrispondano pronunce diverse? Sì, rispondono i fautori della Lsc, che invitano a scrivere abba e leggere àcua. Inutile confusione, sostengono i fautori del doppio standard. «Nessuno impedisce che a un segno corrispondano diverse pronunce, ma non si può imporlo senza discuterne. Alcune soluzioni possono essere offerte dalla flessibilità degli usi». Ma soprattutto, «non tutti i problemi di uno standard linguistico sono tecnici. Alcuni sono sociali, altri di comunicazione, altri ancora storici, e moltissimi giuridici». Servono, insomma, professionalità molto diverse per standardizzare una lingua. Ed è importante che gli arbitri siano indipendenti e in contatto con la comunità: il Laboratorio/Fraili dovrebbe essere aperto ed inclusivo. E non dimenticare che non si può congelare un idioma. «Una lingua non è solo un set di regole, ma esiste perché è in uso. Altrimenti è una chimera, una lingua morta, o una lingua immaginaria». Invece di coltivare infinite discussioni sui progetti di standard, suggerisce Mongili, bisognerebbe concentrarsi su quanto siano utili per chi li adopera. «I progettisti, anche i più geniali, dovrebbero riportare in Laboratorio il loro insieme di regole per vedere se sia possibile renderlo accettabile a chi lo rifiuta». Il problema del sardo, osserva Mongili, non è lo standard perfetto, ma il fatto che stia scomparendo. La disamistade aumenta i rischi di estinzione. «Ci vorrebbe più responsabilità da parte di tutti. Capacità di mettere da parte le animosità personali e di riconoscere che la cosa più importante è evitare la sparizione del sardo. A costo di cedere su qualche punto». Ma che fare della Lsc? Difenderla a oltranza come fa il Comitato promosso dall’ex direttore dell’Ufìtziu Limba e Cultura, Pepe Corongiu? O buttarla a mare, come suggeriscono Oreste Pili e la sua Académia de su Sardu? «Come standard provvisorio limitato alla scrittura, è stato un ottimo passaggio». Però non è intoccabile. Da anni Mongili si affanna a ripetere che critiche e discussioni sono normali. «I problemi posti sono del tutto legittimi. Potrebbero condurre alla creazione di una vera lingua unificata in tempi rapidi, vista la ricchezza e varietà degli apporti. Sono i toni a essere spesso esagerati». C’è chi reclama una decisione dell’alto. «È illusorio pensare che si possa, a colpi di decreto, superare questa fase di flessibilità interpretativa. Ci vorrebbe una Open Conference, secondo un sistema di Call aperte e di sessioni parallele, tematiche, in cui si cerchino i punti di convergenza su tutti i punti posti dalle discussioni in atto». Nessuna conferenza o commissione ha il potere di regolare in modo coercitivo una lingua, ripete Mongili. Ma almeno potrebbe calmare gli animi. «Chi fa la differenza, alla fine, non è chi apparentemente comanda, ma chi insegna nelle scuole, chi parla il sardo con i figli, e chi lo scrive sui social network e sui media tradizionali». Riviste, blog, tg, grammatiche: la produzione è vastissima. «Ogni lavoro che si è fatto sul sardo, dall’incredibile ditzionariu.org di Mariu Puddu alle proposte di Roberto Bolognesi, sino al lavoro pioneristico e, in un certo senso storico, di Giuseppe Corongiu, dovrebbe essere riconosciuto come meritorio da tutti coloro che lavorano per il multilinguismo». Riconoscimento reciproco è la parola d’ordine. «I litiganti dovrebbero capire che il loro ruolo di protagonista è solo apparente. Il vero protagonista è collettivo, cioè sono i Sardi che poi devono usare i progetti di standard per mandarsi sms o scrivere una poesia». E spesso non sanno nulla di politica linguistica. «La gente vorrebbe superare il blocco che le impedisce di usare il sardo, di cui ha una conoscenza passiva. Vorrebbe scriverlo e leggerlo, ma non sa come fare». Servono reti eterogenee e non fortini, insiste il sociologo, per dare ai sardi gli strumenti che salvino dall’estinzione una lingua, «che è un monumento culturale elaborato collettivamente in 1200 anni». Non sempre ne siamo consapevoli, ma non tutti i popoli hanno elaborato una lingua propria. «La politica, se per caso è interessata al bene della Sardegna (cosa su cui ho una serie di dubbi) dovrebbe occuparsene. Non per imporre soluzioni, ma per garantire il processo della standardizzazione linguistica e il lavoro di articolazione necessario per portarlo dappertutto. Senza suscitare fenomeni di rigetto».
Daniela Pinna

FUORI DALLA GEOPOLITICA, IL MONDO E’ PIU’ COMPLESSO! I russofoni dell’Est ucraino in gran parte con Kiev. Un mio articolo su “L’Unione Sarda” del 26 Aprile 2014

Nel profluvio di ragionamenti geopolitici, che riducono il mondo a una scacchiera priva di sostanza storico-sociale, e i paesi a pedine prive di conflitti sociali, e di complessità, mi sono ritrovato a leggere alcuni sondaggi russi e ucraini. La mia idea è che negli eventi recenti, all’Est, il pane conti almeno altrettanto rispetto ai confini e alle bandierine piantate. La mia idea è che la base del consenso del regime putiniano non sia ampia. E che il processo di edificazione di una nazione, in Ucraina, la stesse portando a uscire dal modello oligarchico e quasi-patrimoniale sovietico e poi russo. Si stesse dirigendo cioè verso una democrazia fondata su un sentimento di cittadinanza e di identificazione nell’essere ucraino, nella sua lingua e nella sua storia. E che questo, per il regime putiniano, fosse ben più pericoloso del possesso del Donbàss o della Crimea. Che, sinché il funzionale Janukòvych regnava a Kiev, non interessavano certo il Cremlino.
Il Levada-centr, a Mosca, è diventato un punto di riferimento importante per capire l’opinione pubblica russa. La fiducia dei russi in Putin, sul fondo, è misurabile nei suoi dati. Contraddittori. Secondo il 46% dei russi, egli rappresenta gli interessi dei “silovikì”, termine che indica i servizi, le forze armate e del Ministero degli interni, la forza (“silo”). Per il 38% gli “oligarchi”, e per il 33% i “cinòvniki”, termine che in Russia si usa da prima di Gogol’ per la “gente coi gradi” (“cini”), che poi sarebbero gli irreggimentati e ottusi burocrati russi. Solo il 14% pensa che faccia gli interessi di tutti. La sua azione politica non è apprezzata (al massimo raggiunge il 25% per la sua politica salariale), tranne che su un punto: “Aver restituito alla Russia lo status di grande potenza rispettata” (51% nel marzo 2014). Un dato più illuminante di tante elucubrazioni che riempiono i giornali. Un regime fragile, la ricerca del consenso. Vecchie scappatoie da regime nazionalista incapace di governare società complesse. Da Mussolini a Videla, sino a Putin, tutti lì a spaccare reni.
In Ucraina, un sondaggio rivolto ai russofoni del Donbàss (la macroregione comprendente Donètsk, Luhansk, Dnipropetrivsk e l’oriente sovietizzato), in parte etnicamente ucraini, in parte russi veri e propri. Con opinioni da leggere. Ad esempio, solo il 29% dei russi d’Ucraina si sente minacciato nei propri diritti linguistici. Solo il 24% dei Russi del Donbass (che sono il 38% della popolazione complessiva della regione) è favorevole all’intervento armato di Putin. Ancora minore fra gli ucraini russòfoni (7%). E il Donbass è comunque al 57% etnicamente ucraino. Questa parte dell’Ucraina è “Russia” solo nel raccontino che piace tanto al Cremlino ma un po’ meno agli abitanti dei luoghi, fra i quali sembra prevalere la cittadinanza comune, ucraina.

Se si confondono i dati con la realtà. Un mio articolo su “L’unione sarda” del 27 marzo 2014.

“Questa mattina, la Malaysia ha ricevuto nuove immagini satellitari dalle autorità francesi che mostrano oggetti potenziali nelle vicinanze del corridoio meridionale”, affermava il Ministero dei Trasporti malese nei giorni scorsi. “La Malaysia ha immediatamente trasmesso queste immagini al centro australiano di coordinamento dei soccorsi”. Un altro “oggetto potenziale”, che misura 22 metri per 13, è stato scorto dai cinesi a 1500 km a sud-ovest di Perth. Così la stampa sulla sparizione del volo MH370 della Malaysia Airlines. Cosa c’è di fondamentale per capire il mondo in cui viviamo in un episodio simile? Perché fa impazzire i generatori semi-automatici di complotto e mystery, così agguerriti in ogni anfratto della produzione globale di discorso?
La connessione franco-malese-australo-cinese ci dà la misura (è la parola giusta!) delle reti che connettono le attività che si svolgono oggi sulla Terra, sempre più distribuite in luoghi diversi ma coordinate attraverso la condivisione di misure, di indici standardizzati, in una parola di “dati”. Potremmo parlare della mobilità aerea ma anche delle malattie, tutto si tiene perché misurato (più che misurabile, che è un altro discorso), riferito a standard, e tutto ciò che è “misurato” è confuso con la realtà stessa.
L’incidente dell’MH370, la sua sparizione, spaventa non tanto per la contabilità dei morti, quanto perché non è più inseribile in un qualche insieme di dati che possano rappresentarlo. Da realtà, è diventato “oggetto potenziale”.
Viviamo dunque in un’enorme matrice dati? Sì, in cui però i protagonisti non sono così fighi come nel film “Matrix”. È tutto più prosaico. Il rischio, comune ai complottisti compulsivi e ai realisti ingenui, quelli che “se una cosa non è misurabile non è degna di nota” (ad esempio, gli economisti mainstream che ormai governano tutto, creando disastri), è quello di confondere questa enorme matrice dati con la realtà. Il volo sparito è infatti reale non meno di un volo seguito in ogni sua fase e i cui dati finiscono nei ripositori dove devono finire. Semplicemente, non è al momento rappresentabile dai dati. Un libro uscito l’anno scorso per The MIT Press si intitolava “I dati grezzi sono un ossimoro”, un controsenso, perché ogni dato non è altro che rappresentazione costruita. Anche se è la narrazione prevalente nel mondo in cui viviamo. I dati, oggi, sono come gli idoli cananei messi in ridicolo dai profeti di Israele. Costruiti da mani e da processi socio-tecnici ben analizzabili, ma adorati come qualcosa di trascendente, come l’unico principio di realtà.

Ucraina: il difficile percorso di una nazione. Un mio articolo su “L’Unione Sarda” del 6 Maggio 2014

Sul “Termometro” de L’Unione Sarda di martedì 4 marzo, un 36% dei rispondenti approvava l’invio di truppe in Crimea. Dunque, in tanti hanno preso posizione, come si capisce anche dai social network, a favore di Putin.
Circolano sulla stampa italiana racconti ucraini al limite del delirio. Questo enorme paese, il più grande d’Europa dopo la Russia e abitato da 47 milioni di abitanti, è visto come diviso in due, o magari in quattro, e come una specie di enorme Padania che giocatori esterni si contendono in una partita di Risiko.
L’Ucraina, parola che in sardo suona come “Logu de làcana”, è un paese multietnico, multilingue e multireligioso, ma questo non significa che non esista. E’ unito almeno dal 1945, da vent’anni è indipendente, anche se i suoi governi sono stati una catastrofe. E ha una storia millenaria, propria.
È un paese ucraino, anche se spesso russofono. Per noi sardi questa situazione è facile da capire: a Kiev la gente usa il russo per strada, ma si considera ucraina al 100%, così come a Cagliari usiamo l’italiano ma continuiamo a considerarci sardi. Rispetto alla Sardegna, tutti hanno però una conoscenza appropriata dell’ucraino, tutti l’hanno studiato e tutti lo capiscono, anche i russofoni. Diversa è la Crimea. Oggetto di una spaventosa pulizia etnica sovietica, svuotata nel 1944 dai crimeani, o tàtari di Crimea, è stata ripopolata con coloni russi, che hanno un atteggiamento aggressivo e un po’ razzista verso tatari e ucraini, che costituiscono comunque ancora il 50% della sua popolazione. I coloni si sono presi terre, case e altri beni e non hanno nessuna intenzione di restituirli ai tartari, cui è stato concesso solo nel 1989 di tornare dall’esilio uzbeko. Diverse sono ancora Odessa e altre città russe di fondazione della costa e dell’Est. I russi sono in Ucraina la minoranza maggiore, quasi 9 milioni, e profonda è, nelle vecchie generazioni, la nostalgia di un’identità imperiale sovietica. Ma importante è anche il “nuovo” sentimento civico ucraino.
Detto questo, rimane difficile capire i ragionamenti dei commentatori italici, per cui è più importante il battesimo della Rus’ nel 988 d.C., la Chiesa uniate, Bendera e i Piani quinquennali, e meno quello che è accaduto negli ultimi vent’anni, in cui in un difficile processo di costruzione di una nazione si sono aperte speranze, si sono minacciate posizioni, si sono rovesciate maggioranze, per ben due volte, e c’è già stata una rivoluzione. E, in Russia, un regime si sta affermando.

Innovare la politica sarda non è facile. E stavolta si è messa di mezzo anche la misoginia. Un mio articolo su “L’Unione Sarda” di Venerdì 21 febbraio 2014.

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Le elezioni regionali hanno segnato per la seconda volta in cinque anni la sconfitta di due tentativi di innovare la politica sarda, fra di loro diversi, ma con molte similitudini, incarnati in due personalità diverse ma, soprattutto, di genere diverso.

Non è un caso che Murgia e Soru si siano beccati in questa campagna elettorale, come è tipico di tanti innovatori fra di loro. Stimandoli entrambi, mi è pure dispiaciuto.

In entrambi i casi hanno giocato un ruolo non secondario gli stereotipi impolitici riversati addosso ai due innovatori. Nel caso di Soru, il “carattere”, e per Murgia, una presunta “incompetenza”. Nel caso di Soru, la mostrificazione è partita dalla destra ma è stata accolta con entusiasmo in molta sinistra. Nel caso di Murgia, ha generato un’orgia misogina le cui principali protagoniste, sui social network, sono state le donne della sinistra tradizionale.

L’ambiente era già rodato dagli attacchi contro Francesca Barracciu, la vincitrice delle primarie. La candidatura di Barracciu presentava molte criticità, politiche, ma è stata avversata utilizzando grevi ironie maschiliste. Le donne in questo caso hanno partecipato, ma in misura ridotta rispetto ai maschi. Il gioco è esploso con Michela Murgia candidata. Attaccata per essere cattolica, dipinta come una ferrea antiabortista per aver scritto un post, nel 2007, in cui affermava di essere contraria all’aborto per se stessa (ma di essere a favore della libertà di scelta per ogni donna), a un certo punto è diventata sui social network una specie di oggetto stabile dell’odio di troppe donne di sinistra.

Quel “certo punto” è stato lo scontro televisivo con Santanché. Un evento che permette di capire il fenomeno, grazie anche alla sua forza drammaturgica. Santanché rappresenta l’apice della possibilità di leadership femminile all’ombra del maschio, mentre Murgia rappresenta una leadership femminile indipendente. Il tifo per Santanché da parte di tante donne della sinistra rappresenta l’idea che hanno del proprio ruolo politico. E’ un’idea ancillare. Esultare per il fatto che Santanché avesse “vinto” Murgia ha illuminato come un lampo le ragioni del perché tante politiche preferiscano le quote rosa all’assunzione diretta della leadership. Perché non si sentono in grado di essere libere, ne hanno paura e detestano pure chi ci prova.

Le elezioni si sono concluse. La destra ha perso, la sinistra conservatrice ha vinto e probabilmente affiderà la Giunta alle cordate baronali e il Consiglio a quelle clientelari, anche in versione mista. Entrambe hanno perduto decine di migliaia di voti. L’area della rappresentanza si è ridotta al 52% del corpo elettorale. Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato vittoria, ha scritto Aldo Borghesi. Sardegna Possibile, al cui interno anch’io ero candidato, non è riuscita a riportare su un terreno politico gli adepti del franchising grillino ed è fuori dalle istituzioni, anche grazie a una legge elettorale furba e poco democratica.

Pensavamo che il problema fosse la dipendenza o l’indipendenza, e invece ci siamo trovati di fronte a un gigantesco problema di genere. E con solo quattro donne in Consiglio.